L’uomo che visse tre volte
Tre vite almeno ha vissuto Pellegrino Artusi. La prima di un paesano, figlio di piccoli commercianti, unico maschio con sei sorelle, scuola elementare e praticantato a Livorno. La data di nascita, 1820, lo situa non solo a Forlimpopoli, ma negli Stati della Chiesa, in un’Italia ancora da immaginare. Per le fiere, a Sinigallia, o in città, a Bologna, ci si spostava a cavallo, e il paesaggio, fra i monti, la pineta e il mare, era solcato da vie sterrate e segnato dai poderi dei mezzadri. Per un giovinetto, e per la famiglia che vegliava su di lui, il futuro era lì, e, dopo la morte del padre, Pellegrino Artusi ne avrebbe fatto le veci.
Che cosa doveva mutare questo scenario? L’italia stessa, e le città in cui si preparava un grande cambiamento. Il padre Agostino aveva voluto che il figlio viaggiasse, come non aveva potuto egli fare, non solo a Bologna, ma a Trieste e Livorno e Firenze e Roma. Con un passaporto si varcavano confini, dogane, cinte daziarie, e soprattutto culture provinciali. Dalla poverissima Romagna alla Toscana, passando pei valichi appennini, Pellegrino Artusi entra nella sua seconda vita in cui si parla italiano, si pranza per bene, e ci si comincia a sentire italiani. L’episodio di brigantaggio che nel 1851 segna la famiglia Artusi, con il saccheggio del loro negozio e il disonore di una sorella, è il coronamento di un processo avviato, e, per un capofamiglia intelligente quanto il suo erede, un voltar pagina presentito se non annunciato. A Firenze la famiglia rileva un banco di stoffe, commercia con la Romagna, allevatrice di bachi, e prospera tranquilla. Quando l’unità d’Italia è cosa fatta, gli Artusi sono ricchi. Padre e madre muoiono poco dopo il 1960, sereni.
La terza vita di Pellegrino Artusi comincia da scapolo, in un appartamento nei quartieri nuovi di Firenze, in piazza D’Azeglio 25, quando ritiratosi dagli affari, senza perdere l’attenzione ai conti e una bella mano nello scrivere, decide di farsi una cultura. Leggere, mandare a mente, studiare, prender nota e scrivere. I classici italiani che non aveva ricevuto a scuola, le belle lettere che si acquisiscono frequentando conferenze e conferenzieri. La divulgazione scientifica l’attira, sia l’orto botanico che l’antropologia cui lo introduce un professore che diventerà l’amico, Paolo Mantegazza. Frequenta società di cultura e salotti, perché ormai è un uomo dai modi squisiti, dall’accento impeccabile, capace di scrivere lettere degne di una riverente, o spassosa e familiare, risposta. Peccato d’orgoglio, una ambizioncella di letterato che gli fa pubblicare, a proprie spese (ma da un editore importante quale Barbera) la Vita di Ugo Foscolo, nel 1878, e le Osservazioni in appendice a trenta lettere di Giuseppe Giusti, tre anni dopo.
La sua biografia non è però tutta qui. A settant’anni, colpo di genio o senile follia, pubblica un libro di ricette. Dopo Foscolo, 475 ricette? Nel 1891 esce La scienza in cucina, mille copie a spese dell’autore. Ne scrive molto bene Mantegazza nell’Almanacco igienico popolare, ne favorisce la distribuzione l’amico Bemporad, editore. Nel 1895, una ristampa di mille copie, e cento ricette aggiunte, conferma che il libro non era stato inutile. Poi, dopo il 1897, le tirature aumentano e gli intervalli fra esse s’accorciano sino al 1911, anno della morte e della quindicesima edizione. Vent’anni di lavoro, a corregger quanto stampato, a risciacquare e ad aggiunger piatti, a corrispondere con lettori sempre più entusiasti. Cos’era successo? Dalla lingua alle istruzioni con dosi precise e sperimentate, agli aneddoti con cui il signor Pellegrino porgeva i piatti, era nata una cucina, anzi una cultura, nella quale i lettori si riconoscevano in quanto italiani e in quanto appartenenti a città diverse, con dialetti e pietanze proprie. La scienza in cucina aveva raccolto dalla Romagna e da Bologna, da Firenze e da Roma e Napoli, prove concrete della diversità e della coesione di un paese che sino ad allora, per farsi riconoscere, aveva accettato di scimmiottare la Francia, servendo al posto di cappelletti in brodo una vellutata.
Dopo il 1911, La scienza in cucina continuerà a ristamparsi al ritmo di 10.000 copie all’anno. Ma era già, un anno prima della morte di Pellegrino Artusi, un classico tale da rivaleggiare con i grandi della letteratura italiana. Eppure c’era voluto poco (o tanto): una bella penna, la pazienza di provare e riprovare con Marietta Sabatini e Francesco Ruffilli, governante e cuoco, ogni ricetta, il garbo di rispondere ad ogni lettore, e la pazienza testimoniata dalle 1900 lettere dell’Archivio di Forlimpopoli. Dimenticavamo l’arguzia, rara in cucina, auspicabile in un salotto, spassosa nel signor Pellegrino.
Alberto Capatti