Il Mito di Caterina Sforza, la leonessa di Romagna
A oltre cinque secoli dalla morte, Caterina Sforza continua a catturare l’interesse di quanti si avvicinano incuriositi alla sua storia. A lei va riconosciuto il merito di aver vissuto senza reprimere alcun aspetto della propria personalità. Della vita assaporò tutto, passando dai campi di battaglia ai giardini botanici, dagli splendori delle corti rinascimentali al buio della più tetra prigione papale. Seppe mettere in equilibrio l’aspetto femminile creativo della maternità con quello maschile distruttivo del combattimento e della guerra. Fu moglie e madre, e al tempo stesso fu amante appassionata nonché mecenate di artisti che ospitò presso la sua piccola corte forlivese.
Era considerata bella perché rispecchiava i canoni estetici di quell’epoca, ma fu soprattutto col carisma, l’astuzia, la cultura, la lungimiranza, la determinazione, la passione per le arti, compresa l’”arte della guerra”, in una parola, fu con la sua “umanità” che emerse e riuscì a realizzare, almeno in parte, il progetto di un’unica Signoria in Romagna.
Fu una donna al di fuori del tempo, aldilà del bene e del male, che ancora oggi rischierebbe di non essere compresa fino in fondo per la sua modernità: autoritaria, vendicativa e spietata con traditori e nemici, rapida nel ragionamento e sincera nella parola, premurosa e affettuosa con i figli, saggia e giusta negli atti di governo, istruita ma non accademica, sempre desiderosa di apprendere e curiosa di scoprire i segreti della natura, dell’essere umano, del mondo.
Come confermano gli scrittori rinascimentali, Caterina superò per fama e fascino ogni altra donna del suo tempo. Non sopravvivono ritratti di lei eseguiti in vita ma le cronache del tempo ci consentono comunque di desumere quelli che furono i tratti fisiognomici della “leonessa”. Deduciamo che avesse capelli ondulati che pare tenesse solitamente raccolti dietro il capo. Non sappiamo se fosse bionda e pallida di carnagione ma se aspirasse piuttosto a esserlo, facendo ricorso a creme e “rimedi” che lei stessa sperimentava e che in gran parte ci ha tramandato trascritti nel prezioso volume degli “Experimenta”. Per quei tempi doveva essere donna di alta statura, dal seno prorompente, con grandi occhi, un naso importante e leggermente adunco, tipico dei Romagnoli e per questo anche degli Sforza, le cui origini discendevano da quel Muzio Attendolo, bisnonno di Caterina, capostipite del casato, partito da Cotignola per cercar fortuna sui campi di battaglia.
Caterina Sforza, nata a Milano intorno al 1463, lasciò la vita terrena a Firenze, il 28 maggio 1509, all’età di quarantasei anni con una “pelle di velluto e tutti i capelli bianchi”. Il suo fisico era fiaccato da una vita vissuta intensamente, dalle numerose gravidanze, dalla malaria che l’affliggeva sin da giovane e dai lunghi mesi che i Borgia le avevano fatto trascorrere nelle malsane segrete di Castel Sant’Angelo.
La presenza della “leonessa” però aleggia e permane radicata nella memoria popolare, restando per tutta la Romagna, e in particolare per Forlì, patrimonio comune e condiviso, tanto che, ancora oggi, la Rocca di Ravaldino viene affettuosamente chiamata “il Castello di Caterina Sforza”.
Anche se a Forlimpopoli non si svolsero momenti decisivi o particolarmente salienti della vita di Caterina, sappiamo che la rocca rappresentava un importante punto strategico militare e, a quanto ci risulta, veniva utilizzata per incontri diplomatici.
Tra tutti ne ricordiamo in particolare uno. A metà del 1494 Carlo VIII di Francia stava scendendo con le sue truppe in Italia. Prima di mettersi in marcia, aveva intessuto alleanze diplomatiche e poteva contare, oltre che sull’appoggio di Ludovico il Moro, anche su quello degli Stati di Savoia, Monferrato, Saluzzo, Mantova e Ferrara.
Il re di Francia si trovava di fronte a una decisione importante, da prendere velocemente: far passare il proprio esercito dalla costa tirrenica oppure dalla via Emilia.
Il passaggio dalla Toscana avrebbe significato scontro diretto con i Fiorentini. Superata poi quella resistenza, si sarebbero dovute attraversare le paludose e impervie zone della Maremma e dell’Agro Pontino. Molto più agevole si presentava invece la discesa lungo la comoda via Emilia fino alla Romagna, da cui si diramavano tutte le strade per le Marche, l’Umbria e la Toscana.
La Romagna di quei tempi giocava un ruolo centrale negli interessi strategici, sia commerciali sia militari. Essendo la porta di accesso dal nord al sud della penisola diventava centro della contesa tra Spagnoli, che controllavano il Regno di Napoli, e i Francesi guidati da Carlo VIII. Per questo motivo le città romagnole si trovarono sotto la minaccia delle truppe Francesi che si spostavano verso sud.
Come intermediatore, il 30 luglio del 1494, giunse in Romagna il cardinale Raffaele Riario, nipote di Caterina e ambasciatore del papa, il quale decise di alloggiare nella rocca di Forlimpopoli. Egli infatti non tollerava la vicinanza di Giacomo Feo, ex stalliere e secondo marito della Sforza, che pare insidiasse i diritti di successione del cugino Ottaviano Riario, primogenito di Caterina, alla Signoria di Imola e Forlì.
Nell’incontro che si tenne a Forlimpopoli tra il camerlengo Riario e la zia Caterina, accompagnata da Ottaviano come pure da Giacomo Feo, l’ambasciatore del papa fu rassicurato del fatto che non vi era a Forlì alcuna intenzione di prendere posizione a favore né degli Spagnoli, né dei Francesi.
Anche se l’incarico che Raffaele Riario aveva ricevuto era quello di fare il possibile per ottenere l’alleanza militare di Caterina con gli Aragonesi, il cardinale riuscì solo a strappare alla zia la promessa che si sarebbe tenuta neutrale e che in ogni caso egli sarebbe stato il primo a essere informato riguardo ogni futura decisione.
Raffaele Riario approfittò quindi dell’incontro per accusare Giacomo Feo di tenere in ostaggio Caterina e i figli di lei e di esercitare un potere che non gli spettava. A quelle accuse la Sforza reagì e, per difendere l’amante, affermò con veemenza che era lei a governare, esercitando in piena libertà i poteri che le venivano dall’essere tutrice del figlio Ottaviano.
Raffaele Riario, abbandonò mestamente il tavolo delle trattative e, per motivi prudenziali e, al tempo stesso, per prendere le distanze dai due amanti, lasciò Forlimpopoli, trasferendosi per alcuni giorni nel più sicuro castello di Bertinoro, già di proprietà dello Stato della Chiesa. Qui incontrò molti Forlivesi di ogni estrazione, patrizi, laici e sacerdoti, con i quali si accordò per progettare l’eliminazione dello sfrontato usurpatore, cosa che si concretizzò circa un anno dopo. Ma questa è un’altra storia e quando si parla o si scrive di Caterina Sforza di storie da raccontare ce ne sarebbero a non finire.
Marco Viroli
(disegno di P. Novaga)