Anatomia di un omicidio. Come l’Albornoz uccise Forlimpopoli
“E’ stata così mal trattato e saccheggiato Forlimpopoli dagli Istorici paesani – scriveva Vecchiazzani a metà Seicento – che non così fu disfatto e ruinato da soldati stranieri”.
E in effetti la ‘distruzione’ della città nel 1361 è stata tramandata da cronache così faziose da trasfigurare la realtà nel mito, complice anche il trafugamento di quel “Libro episcopale” che solo, raccogliendo gli atti della Diocesi, avrebbe potuto dirimere il falso dal vero.
La storia – e il mito – della distruzione di Forlimpopoli ebbero in qualche modo inizio con la peste nera del 1348 (quella da cui prende le mosse il Decamerone) che da una parte decimò i cardinali, costringendo papa Clemente VI a nominarne ben 12 in una volta sola – e tra questi l’arcivescovo di Toledo Egidio de Albornoz – e dall’altra sembrò indurre al ravvedimento il “perfido cane, rebello de la Santa Chiesia” Francesco Ordelaffi, che al primo affievolirsi dell’epidemia riprese invece subito il controllo delle città di Forlì e di Cesena e delle rocche circostanti, tra cui quella di Forlimpopoli.
Papa Innocenzo VI decise allora di inviare come legato in Italia per riportarvi l’ordine proprio l’Albornoz, che si era già distinto nella guerra contro i mori e che, difatti, riuscì in meno di tre anni – tra il 1353 ed il 1356 – ad isolare completamente l’Ordelaffi, alternando le azioni sul campo a quelle sul piano spirituale (dalla scomunica per eresia del 1354 alla vera e propria crociata del 1356 con tanto di remissione dei peccati per gli alleati).
Nel 1357 caddero quindi Cesena (retta dalla moglie dell’Ordelaffi Cia degli Ubaldini) e Bertinoro (retta dal figlio Giovanni), mentre Forlì, retta dallo stesso Francesco, resistette altri due anni assicurandogli, tra le condizioni della resa, la remissione della scomunica e la signoria, per 10 anni, di Castrocaro e Forlimpopoli, dalle quali non tardò ad ordire nuove trame, certo anche dell’appoggio popolare testimoniatogli ancora nel dicembre dello stesso 1359 dall’attentato all’Albornoz (contro cui i suoi sostenitori indirizzarono alcuni colpi d’arma da fuoco uccidendo il cavallo con cui il legato stava passando sotto gli spalti della città). All’attentato di Forlimpopoli seguì un nuovo tentativo di insurrezione a Forlì, al che l’Albornoz cinse d’assedio Forlimpopoli costringendo l’Ordelaffi, nuovamente scomunicato, alla resa e all’esilio. Ma il legato non si accontentò di aver privato Forlimpopoli del suo signore: già all’indomani dell’attentato aveva, infatti, chiesto a Innocenzo VI di privare la città anche della sede vescovile portandola a Bertinoro, ed anche se il Papa aveva preso tempo rinviando la decisione al Concistoro, diede subito inizio al suo progetto di riduzione della città a semplice presidio militare, incaricando già nella primavera del 1360 il milite Ruggero da Parma di costruire un fortilizio proprio nell’area occupata dal palazzo vescovile, creando così i presupposti non solo per il trasferimento della sede vescovile ma anche per fare progressivamente decadere l’adiacente cattedrale in cui riposavano le spoglie di San Ruffillo. Già a settembre, infatti, Innocenzo VI, informato del fatto che il palazzo vescovile era stato occupato dai militari e che gli edifici ed i giardini circostanti erano stati smantellati per fare spazio ai valli difensivi, invitò il legato a procurare una nuova sede per il vescovo, identificata dapprima nel monastero di San Ruffillo e poi nella città di Bertinoro, elevata formalmente a sede della Diocesi già nel dicembre del 1361.
A quel punto mancava solo un’ultima mossa per cancellare definitivamente la città di Forlimpopoli: trasferire altrove le spoglie di San Ruffillo, come accadde puntualmente nel maggio del 1362 con la loro traslazione alla Chiesa forlivese di San Giacomo della Strada (l’attuale Santa Lucia) dove avevano già trovato accoglienza i monaci di San Ruffillo alla commenda dell’abbazia al vescovo.
Privata della sede vescovile e delle fortificazioni superstiti, Forlimpopoli poteva effettivamente dirsi “destructa et penitus consumpta” anche se non corrisponde al vero – come scrisse Leone Cobelli in vena di rimandi classici – che l’Albornoz fece radere al suolo l’intero abitato (utilizzando quindi i mattoni delle case nella costruzione del Collegio di San Clemente a Bologna) per ararlo e seminarvi il sale a perpetua dannazione della città, così come non corrisponde al vero che distruggendo Forlimpopoli il legato avesse voluto vendicare l’assassinio del vescovo (fatto morire da una pagina spuria del Cobelli con due anni di anticipo, anche se va detto che il Besi avrebbe fatto di peggio dandolo addirittura in pasto ai forlimpopolesi).
Più che alle devastazioni materiali l’abbandono pressoché totale di Forlimpopoli fu quindi dovuto alla sua riduzione da città a semplice rocca per il controllo militare e fiscale di un tratto della Francigena di particolare passaggio.
“Salavaterra – scrive infatti il cardinale Anglico (succeduto all’Albornoz, morto nel 1367) nella Descriptio Romandiolae del 1371 – è un fortilizio o rocca, situata nella provincia di Romagna […] dove una volta fu la città distrutta di Forlimpopoli”, specificando quindi nei Praecepta dello stesso anno che “ha delle ville nelle quali alcuni dei predetti ribelli risiedono colle loro famiglie: altri invero ripiegarono, riducendosi a Forlì, ed altri altrove, secondo che a ciascuno sembrava più vantaggioso”. E ancora – in un altro passo della Descriptio – “quella che fu detta una volta città di Forlimpopoli, prima che fosse distrutta, [… è] disabitata, rimanendo solo le dette ville”.
In realtà, oltre a queste ville, dovevano resistere ancora la cattedrale (pur se in fase di progressivo abbandono), alcuni ospedali (tra cui quello di Santa Maria della Misericordia) e diverse case private, ma appare evidente come Forlimpopoli avesse ormai perduto, con lo status di città, anche il suo stesso nome, sopravvivendogli solo quello della rocca albornoziana – ultimata già nel 1363 – di Salvaterra.
La rinascita della città non era però lontana a venire: nel 1379 papa Urbano VI conferì il vicariato del luogo “in cui sorgeva un tempo la città di Forlimpopoli” a Sinibaldo Ordelaffi, che avviò subito i lavori di costruzione di nuovi fossati e di un nuovo palancato ponendo così le basi – come ha scritto Vasina – “del ristabilimento di una vita comunitaria nel suo naturale tessuto di relazioni economico-sociali e politico ecclesiali”.
Paolo Rambelli
(disegno di P. Novaga)