Il Passatore a Forlimpopoli
Il Passatore a Forlimpopoli è un evento famoso, da libri di scuola. Il profilo del brigante figura nel Dizionario biografico degli italiani e la presa di Forlimpopoli è stata senz’altro il suo colpo più celebre. Tanta notorietà, per un brigante, morto ventisettenne, dopo una carriere criminale durata nove anni (a partire dal 1842), richiede di essere spiegata. Intanto, l’entità dell’impresa. Si trattò dell’occupazione di una città e, per di più, di una città della pianura, di oltre duemila abitanti, a pochi chilometri dal capoluogo di provincia, con un presidio di dieci militari. Le autorità papaline, proprio per queste caratteristiche, la ritenevano sicura e non presero sul serio i primi allarmi. Ma il Passatore e i suoi compari avevano elaborato un piano molto accurato, grazie alle informazioni ricevute da briganti e dritte della zona: i fratelli Ludovico e Angelo Lama (detti Lisagna), già compagni di scorribande del Passatore, residenti per un certo periodo fra Santa Maria Nuova e Carpinello, dal loro cognato Gardella (contadino) e dai Rondoni (due cugini braccianti), tutti e tre di Carpinello.
Il piano fu messo a punto qualche giorno prima della famosa sera del 25 gennaio 1851, dal Passatore e altri due della combriccola di sedici briganti, compreso un prete (don Valgimigli), mentre erano ospiti nella “base” stabilita presso i Lazzarini, tre mezzadri di San Leonardo (parenti con i Rondoni), residenti in un podere a circa un paio di chilometri dalla piazza di Forlimpopoli. Qui i briganti stilarono anche la lista dei danarosi della città. Della quale riuscirono a impadronirsi, verso le 8 di sera, una volta fattisi aprire, con uno stratagemma, dal custode della Porta forlivese. Disarmati i pochi militi, rimasti in caserma, i banditi entrarono nel teatro pubblico, dove era in corso di rappresentazione un drammone biblico, la Morte di Sisara. Come commedianti, i banditi sbucarono dal palco e si dichiararono, minacciosi, chiamando per nome i “signori” presenti e usandoli poi come scudi per penetrare nelle loro abitazioni. Sotto la minaccia dei fucili e a suon di percosse, tredici benestanti della città subirono la rapina di gioie, biancheria, orologi e monete. I valori, messi in un sacco, erano quindi portati in teatro e rovesciati su un tavolo posto di fronte agli spettatori, secondo i moduli di una scena da “esproprio dei ricchi”, che molto gioverà alla risonanza dell’impresa. “L’un sopra l’altro in fila scudi cinquantamila”, canterà entusiasta qualche mese dopo il poeta e patriota Fusinato, aggiungendo uno zero di troppo all’entità reale della rapina. Il cui valore, stimato per difetto, non era lontano dall’intero bilancio del Comune in quell’anno, pari a seimila scudi (per una comparazione, 1 scudo del 1866 equivale a 24 euro del 2010). Il teatro fu tenuto per ore, mentre l’orchestra suonava forzatamente dei ballabili. Gli spettatori, atterriti, stavano a testa bassa per non incrociare gli sguardi dei banditi, recitando preghiere: “il teatro divenuto era una casa di orazioni”, come testimonierà il “sindaco” Briganti. Che ancora tre mesi dopo portava sul corpo “pieno di lividure” i segni della violenza subita.
Fra le vittime illustri, spicca senz’altro la famiglia di Pellegrino Artusi, futuro “inventore” della cucina italiana, allora trentunenne. Nella sua casa, posta sulla piazza principale, i banditi si abbandonarono a violenze e ad atti di sadismo, usando quasi certamente violenza sessuale alla sorella maggiore, Geltrude, che ne resterà segnata per tutta la vita, finendo rinchiusa nel manicomio di Pesaro, dove morirà dopo 21 anni di reclusione, in uno stato di “demenza semplice”, nel 1876.
Se Forlimpopoli segnava l’apice dell’audacia del Passatore, costituiva anche l’ultima tappa della sua carriera. Due mesi dopo, infatti, il bandito cadeva sotto i fucili dei gendarmi, nei pressi di Russi, il 23 marzo 1851. Tragica anche la sorte di quattro campagnoli, complici dell’impresa. A pubblico ammonimento erano fucilati, nel piazzale davanti al teatro di Forlimpopoli, il 26 aprile successivo, Giuseppe Lazzarini (il capo di casa), Giuseppe e Luigi Rondoni di Carpinello e Luigi Lolli di San Bartolo di Ravenna.
Tuttavia, morto il Passatore, viva il Passatore. La rapina di Forlimpopoli entrava in un processo di mitizzazione che la trasformava in un caso di brigantaggio “sociale”. Lodato da Garibaldi e dal poeta e patriota Dall’Ongaro, nonché da una bella Rapsodia da cantare nelle fiere (dal 1864), il Passatore o meglio il suo mito era esaltato proprio per l’impresa di Forlimpopoli, con la quale avrebbe dimostrato – secondo una folta schiera di romanzi da bancarella – prima il coraggio della ribellione contro lo Stato del papa e gli austriaci suoi protettori, poi – mutato il palco del teatro in una tribuna da comizi popolari – di essere un leader politico di stampo radicale e socialista, alla guida di una prossima “giustizia proletaria”. Il poeta Giovanni Pascoli, seguace del socialismo di Andrea Costa, lo diceva “Passator cortese”, ovvero rispettoso dei suoi “sudditi”, “tenuti” come il signorotto di una Romagna antica. Una lapide dettata dal poeta Olindo Guerrini e murata nel 1904 all’interno del teatro (ancora in sede), confermava nel Passatore colui che aveva consacrato alla vergogna i “governi non consentiti dal popolo”.
Il mito inizierà a mostrare segni di cedimento durante il fascismo. Nel 1929 alcuni saggi storici avanzavano i primi dubbi sulla sovrapponibilità del profilo storico del bandito con il mito del “brigante sociale”. Ma lo sganciamento definitivo si avrà solo con la biografia di Leonida Costa, nel 1974. Ciò comportava anche una revisione degli emblemi dell’identità cittadina forlimpopolese. Se negli anni del mito trionfante a Pellegrino Artusi era toccata la parte del “ricco avaro” punito dalla “contribuzione” passatoresca, a partire dagli ultimi decenni l’investimento nel suo nome, eretto a emblema dei cibi di qualità, ha finito col mettere sulla difensiva il Passatore, relegato ormai fra i banditi crudeli e senza segno politico.
Dino Mengozzi